Piani nei piani: il rapporto tra “Dune” di Frank Herbert e William Shakespeare

Pubblichiamo un’articolo del Consigliere di Yavin 4 Massimo “Blacklord” Moro (alias il Lord Darth Vader del Consiglio) sul quale si è basato il suo intervento (il 25 giugno 2022) nel convegno online su “Testimonianza e testimoni”, in occasione del Premio Nazionale di Filosofia…

PIANI NEI PIANI
Il rapporto tra “Dune” di Frank Herbert e William Shakespeare

“Dune” (1965) di Frank Herbert è uno dei romanzi che ha maggiormente influenzato e plasmato il genere fantascientifico; William Shakespeare (1564-1616) è il più importante scrittore inglese e probabilmente il più grande drammaturgo occidentale. Come possiamo sintetizzare il rapporto tra questi due autori?
La biografia di Frank scritta nel 2003 dal figlio Brian Herbert (“Dreamer of Dune”, inedita in Italia) offre un eccellente punto di partenza per questa indagine. Non tanto in relazione all’aneddoto secondo il quale, “prima dei dodici anni, Frank, sempre curioso, lesse l’opera omnia di Shakespeare”; più pregante è certamente questo passaggio: “Di tutti gli scrittori che mio padre ha letto in gioventù, forse è stato influenzato in modo più evidente da Shakespeare. Nei palazzi di Dune, con le loro grandi sale da banchetto e i passaggi oscuri, si ha una sensazione molto simile ai castelli in cui i personaggi di Shakespeare covavano, tramavano e uccidevano. Il tradimento e la perfidia permeano gli scritti di Shakespeare. Quando, in Dune, Frank Herbert scriveva di “trucchi dentro i trucchi dentro i trucchi” e di “tradimenti dentro i tradimenti” e di “piani dentro i piani dentro i piani”, il suo linguaggio ricordava il Riccardo II (II, iii, 87): «Grace me no grace, nor uncle me no uncle…».

La traduzione di questi splendidi versi, che anticipano lo Shakespeare maturo, nella traduzione di Andrea Cozza, prosegue così:

«Fammi grazia della grazia, lascia stare lo zio.
Non faccio da zio ai traditori, e la parola “grazia”
in una bocca disgraziata mi sa di bestemmia.»

Brian Herbert intuisce, quindi, che i drammi storici e le grandi tragedie shakespeariane sono una delle influenze fondamentali, in particolare a livello formale, della vicenda tragica di Paul Atreides, della sua famiglia e dei suoi avversari, dove la volontà non può nulla contro le forze più potenti e irrazionali che albergano e trascendono l’animo umano, e che già i tragici greci avevano messo in scena nell’Atene periclea.

Presupponendo la lettura del romanzo, pubblicato in due parti tra il 1963 e il 1965 sulla rivista “Analog” e quindi in volume nel 1965 (o perlomeno la visione del film uscito nelle sale nel 2021, diretto dal regista canadese Denis Villeneuve e tratto grossomodo dalla prima parte del libro), la citazione che dà il titolo al mio intervento, contenuta nel capitolo 25, ci fornisce una prima conferma di queste intuizioni.
Lady Jessica, madre del protagonista, sta fuggendo insieme al figlio, inseguiti dai Sardaukar nei bui cunicoli sotterranei che, da un passaggio segreto nella Stazione Ecologica Imperiale, portano alla salvezza nelle caverne controllate dei Fremen, le fiere tribù che si nascondono tra le aride dune che danno il nome al pianeta Arrakis. Alle loro spalle, la strage perpetrata dalle truppe scelte imperiali e il sacrificio del fedele Duncan Idaho, comandante dell’esercito di Casa Atreides, e del planetologo imperiale Liet-Kynes, leader segreto dei Fremen in attesa della venuta del Mahdi, la figura messianica che li porterà alla conquista dell’Universo e alla trasformazione ecologica di Dune. Solo delle frecce luminose li guidano:

“Un’altra freccia indicò la via davanti a loro. La superarono e la freccia si estinse, mentre una terza si accese. Ora stavano correndo. Piani nei piani nei piani, pensò Jessica. Siamo forse parte del piano di qualcun altro? Le frecce li guidarono di curva in curva, sfiorando ingressi laterali appena intravisti nella debole luminescenza. La galleria continuò a sprofondare, finché a un certo punto cominciò a risalire. Alla fine raggiunsero dei gradini. Un’ultima svolta e si trovarono davanti a una parete luminescente con una maniglia nera, ben visibile, al centro.”

Questa citazione riecheggia ironicamente un’osservazione del Barone Vladimir Harkonnen, il feroce avversario della Casa Atreides, contenuta nel secondo capitolo. Di fronte all’esposizione del piano apparentemente perfetto, orchestrato dal suo mentat deviato (ovvero un malvagio computer umano) Piter de Vries che porterà alla caduta della famiglia del Duca Leto Atreides, padre di Paul divenuto – su ordine imperiale – il nuovo feudatario di Dune, il Barone impone al nipote ed erede designato Feyd-Rautha di ascoltare attentamente e di osservare

“come i piani s’incastrino nei piani, in altri piani… – Vi sono molte altre possibilità divergenti – continuò Piter. – Io ho previsto che la Casa degli Atreides verrà su Arrakis, ma non dobbiamo ignorare la possibilità che il Duca abbia un contratto con la Gilda per farsi trasportare in un luogo sicuro, fuori del Sistema. Altri, in simili circostanze, hanno rinnegato (…) e si sono precipitati al di là dell’impero.
– Il Duca è un uomo troppo orgoglioso per farlo – disse il Barone.
– È una possibilità – replicò Piter. – L’effetto finale, tuttavia, per noi sarebbe lo stesso.
– No, non sarebbe lo stesso! – ruggì il Barone. – Devo averlo morto, e la sua famiglia estinta!
– Questo è altamente probabile – disse Piter. – Vi sono chiari indizi, quando una Casa ha deciso di rinnegarsi. Non sembra che il Duca si prepari a nulla del genere.
– Appunto – sospirò il Barone…”

In questi due passaggi e – a maggior ragione – nell’intero romanzo, possiamo cogliere la profonda influenza su Frank Herbert del Bardo dell’Avon. Fin dall’adolescenza, quando lessi per la prima volta questo romanzo e “Amleto” e “Macbeth” nelle splendide traduzioni curate da Nemi D’Agostino (1924-1992), ho percepito questo profondo legame tra questi due autori anglosassoni. D’Agostino, collega del grande Mario Praz, è stato un finissimo ed ingiustamente sottovalutato anglista, professore di Lingua e letteratura inglese alla Statale di Milano, poi alla Sapienza, autore di saggi su Ezra Pound e William Butler Yeats, curatore per Garzanti dell’edizione bilingue di Tutto Shakespeare. Nelle sue introduzioni e nei suoi saggi, D’Agostino ci ha lasciato magistrali analisi del teatro shakespeariano e della potente, sotterranea, influenza dei tragici greci sul drammaturgo inglese. In particolare, nella sua introduzione alle Opere complete di Shakespeare, Nemi d’Agostino definisce “la grande tragedia” come

“L’invenzione greca, anzi ateniese, di un modello formale, insieme letterario e teatrale, in cui un mondo drammatico costituito dai “sottomondi” dei personaggi – sottomondi cui appartengono tutti i sentimenti, le affermazioni, i giudizi e i valori che si trovano nel testo – e che consiste nel rapporto conflittuale di questi sottomondi, viene mostrato e non dimostrato… non è veicolo di tesi o messaggi… scatena domande alle quali non si dà risposta né, come la visione implica, vi è risposta possibile. I sottomondi del mondo drammatico sono anch’essi conflittuali: i personaggi non conoscono se stessi né il senso delle proprie azioni, le quali aprono ogni volta senza risolverlo il problema della libertà e della responsabilità, e portano a risultati contrari ai loro progetti. Il mondo della tragedia si sottrae a ogni spiegazione che non possa venire contraddetta da un’altra, appare estraneo a ogni certezza, a ogni dogma e sistema di valori, nemico della logica che pretenda di essere l’unico canale della conoscenza. Il suo senso globale è un’interrogazione e non un’asserzione, è una somma di inconciliabili che può formularsi razionalmente solo in modo precario e non definitivo. Visione sinottica, cosmica, profondamente agnostica, immagine di immagini del mondo, forma principe dell’ambiguo, della scepsi, dell’ironia, e simbolo del mistero della vita. Questa è la visione tragica quale si manifesta nella tragedia ma in seguito anche in altre forme letterarie, per esempio nella narrativa di Melville o di Dostoevskij. Ciò che l’autore tragico ci trasmette è il suo senso tragico del mondo.
L’uomo… si coglie meglio in una domanda che in una qualsiasi affermazione. L’eroe tragico… è grande rispetto a noi spettatori, piccolo rispetto al trascendente indefinito, tra il quale e noi egli è mediatore. La fonte della sua grandezza, del suo carisma, non è valutabile con criteri etici, anzi è imperscrutabile.
I tragici greci operarono, è legittimo pensare, in una congiuntura favorevole i cui coefficienti furono la natura non dommatica né costrittiva della religione greca, la fase di libero sviluppo del pensiero tra teologia arcaica e dommatismo logico dei grandi sistemi filosofici, la formazione di un’etica della pòlis di contro all’antica etica… la situazione della democrazia ateniese e la sua organizzazione della cultura… In queste condizioni essi adoperarono come materiale i miti con la loro carica di universalità (un mito è come i vangeli, asserisce qualcosa che è certo, presuppone un assenso immediato e una fede) e con un processo di problematizzazione, di avvicinamento e allontanamento… li ristrutturarono in forma tragica. Furono essi a inventare la rappresentazione pluralistica dell’anima… e del “multiverso” umano, logico e alogico, terreno e divino, estremamente pregevole e vano. Ma oltre a inventare la rappresentazione della psiche e dei suoi rapporti che è ancora in gran parte alla base del pensiero moderno, essi diedero voce alla prima forte esigenza di libertà della mente umana che si scopre autonoma da rivelazioni e dogmi, si interroga su se stessa e getta, come scrisse Nietzsche, «uno sguardo nell’essenza delle cose»…
I tre tragici greci che conosciamo incominciarono a essere fraintesi o contrastati già in vita dai primi grandi filosofi etici (Socrate e Platone), e non furono più capiti quando, al volgere del V secolo, tramontò in Grecia l’immaginazione tragica insieme alla congiuntura che l’aveva resa possibile.
Tuttavia, se la tragedia greca si era eclissata, il senso del tragico s’iscrisse nella lunga durata della storia culturale e negli strati profondi della coscienza europea, per riemergere non appena glielo permettesse una nuova congiuntura favorevole… Solo in Inghilterra, nella sottocultura dei teatri, trovò la possibilità di riemergere… il fatto che i greci avessero ordinato e presentato l’esperienza umana in così potenti forme tragiche non poteva non essere avvincente e stimolante per i drammaturghi elisabettiani, i quali adoperarono… l’eredità classica con una libertà inconcepibile sul continente. Al livello più̀ profondo è certo l’istinto e il furor teatrale che fa loro reinventare dopo duemila anni l’immaginazione tragica, e la rinnova e la fa rinascere in forme nuove, così come le forme classiche rinascono in Michelangelo o Raffaello.
Ciò avviene in un arco di cinquant’anni… soprattutto ad opera di Shakespeare. E questa congiuntura presenta molte analogie con quella dell’Atene periclea. Anche il teatro inglese nasce come una grande esperienza di riflessione sul reale, libera dalla tirannia della ragione e da quella della fede. Nasce in un interregno di scepsi e di libero pensiero, tra due grandi civiltà totalitarie: da una parte il dommatismo medievale e riformista col suo patto Ragione-Fede, dall’altra il totalitarismo logico-razionale del moderno Leviatano col suo patto Ragione-Deismo. Da una parte il sistema della Provvidenza, dall’altra il sistema del Calcolo. E qui i coefficienti della congiuntura, oltre ai contributi classici e medievali, furono certo la crisi del logos, del principio di contraddizione, nella scepsi, nella magia, nel panteismo animistico ecc., e anche l’accentuarsi della distanza dall’uomo del deus absconditus protestante, il dio che non ama gli uomini, il dio che riacquista l’incomprensibilità, l’arbitrarietà, l’assenza di razionalità ed eticità del concetto antico del divino: il cielo si spopola ma l’immanenza rinascimentale ritrova con la Riforma una controparte metafisica che è per l’uomo altrettanto “altra” e incomprensibile, se non altrettanto vicina e palese, del piano divino dei greci.”

E certamente il ciclo di “Dune” nasce da un’analoga congiuntura storica, dove riemerge un’immaginazione tragica analoga a quella di William Shakespeare, tenuto conto che Herbert è, inoltre, influenzato dalla complessa poesia di Ezra Pound, dall’eccellente costruzione degli intrecci di Guy De Maupassant e dalle potenti caratterizzazioni di Marcel Proust, come anche da “I sette pilastri della saggezza” di Lawrence d’Arabia e dal misconosciuto “The Sabres of Paradise” di Lesley Blanch, che narra di una jihad islamica contro l’imperialismo russo nel Caucaso.

Nella presentazione, pubblicata nel settembre 1989, al “Macbeth”, “che è opera così unica, così travolgente nella sua innovazione”, D’Agostino ci rammenta che…

“Il fato ha deciso la rovina di Macbeth che tuttavia è sempre libero nelle sue decisioni… Nel suo teatro Shakespeare ci mostra eroi giovani, guidati da dei lungo la loro strada e perciò profondamente sicuri, nello splendore del successo come in quello della perdizione. Ma ci mostra anche eroi che invecchiano, nella fase in cui ogni aspetto dell’esistenza par adeguarsi man mano all’immobilità finale, e si confondono ciò che è stato e ciò che non è stato, ciò che è e non è. Esseri pieni della malinconia dell’età non più guidata da dei, e della delusione dell’uomo d’azione che raggiunge i suoi traguardi e ne vede il vuoto e il prezzo esoso, e coglie una delle tante facce del vero, la vita come assurdo…
Uno dei modi in cui l’autore tragico rappresenta l’Ananke è da sempre la convenzione dell’ironia tragica: quella che mette in bocca a Macbeth le stesse parole delle streghe (I, iii, 37)… Macbeth è ben poco cosciente della Necessità in cui si versa il suo volere, anche se sembra capirlo in ultimo… Schopenhauer sorrideva del concetto «filosofico» di volontà, e Wilson Knight fa notare giustamente (in La ruota di fuoco, 1930) che «la volontà non ha posto… nel mondo appassionato delle grandi tragedie», perché la tragedia «si occupa solo di quelle sorgenti più profonde dell’azione che il concetto di volontà tende a offuscare». Il pugnale fantasma che guida Macbeth per la strada da lui intrapresa (II, i, 42) esprime perfettamente la doppia motivazione, concorso di volizioni umana e divina, di libertà e servitù. Come il prodigio apparso all’armata greca nel cielo di Aulis, le «sollecitazioni soprannaturali» sono per Macbeth ambigue, insieme positive e negative. La sua impresa sarà come quella di Agamennone, «vinta e perduta»”.

Come non cogliere “nei piani nei piani” intuiti da Lady Jessica e sui quali punta il Barone Harkonnen, ingannandosi nel momento in cui sembra assaporare la vittoria futura, la stessa ironia tragica, lo stesso genio crudele che Nemi D’Agostino, tra gli altri, riconosce in Shakespeare, in particolare nel “Macbeth”? I personaggi di Herbert, spesso con enorme sofferenza, si assumono la responsabilità di colpe che non potevano non commettere. Di questa necessità non ne sono coscienti come non lo è nessun eroe tragico, nemmeno quando intuiscono di essere nelle mani del destino “come una mosca in mano a ragazzi crudeli… una palla da tennis delle stelle”. Piano umano e piano soprannaturale, destino e libertà sono grandi temi sia di Shakespeare sia di Herbert. Come conciliarli rimane anche in Herbert un quesito senza risposta. Anche le imprese di Paul Atreides, del padre Duca Leto, ma soprattutto del figlio Leto II, futuro Imperatore-Dio di Dune, e degli altri protagonisti del ciclo duniano, saranno, come quelle di Macbeth o Agamennone, allo stesso tempo ambiguamente vinte e perdute.

Suggestiva, in questo senso, è l’analisi di Dune svolta da un grande esperto di fantascienza quale è Alessandro Pin: egli propone la tesi che nel romanzo la narrazione è…

“Al servizio di un contesto deterministico… Frank Herbert fa leva anche sul cambiamento innato e determinante di ogni sistema ecologico, ovvero l’evoluzione. Paul è il predestinato, ovvero colui che, oltre a guidare il popolo dei Fremen verso la libertà e il cambiamento, ha il dono della prescienza: la capacità che gli permette di “cavalcare” l’onda del tempo, tra stati emotivi contrastanti, mentre le circostanze che lo guidano mutano continuamente. Paul è il risultato di un programma di selezione genetica, un processo deterministico portato a livelli di eccellenza, ma sfuggito al controllo del Bene Gesserit; la debolezza della Sorellanza è l’incapacità di prevedere il prossimo stadio evolutivo, poiché ancorata a concetti deterministici come, ad esempio, il principio tecno-religioso della Missionaria Protectiva, atto a “contagiare” i mondi primitivi per corromperli e soggiogarli, o il potere della Voce, ossia indurre risposte che costringano le vittime a compiere determinate azioni. Paul è il frutto di questa linea evolutiva, addestrato a dominare ogni impulso e contrastare ogni reazione; tuttavia, il Muad’Dib dei Fremen è anch’egli succube, costretto da questo processo biologico, poiché le sue capacità sono ridotte da limiti umani: un fattore cieco e inconscio nel grande disegno che porterà alla jihad universale in suo nome, che Paul, nonostante sia riluttante a scatenare, sarà obbligato ad assecondarne la necessità per la prosperità di Dune.
La preveggenza in dono a Paul non sempre è conclusiva; non perché la realtà non funzioni in modo deterministico, ma a causa dell’elevato numero di variabili. La prescienza si assume, dunque, come un’illuminazione che incorpora i limiti di ciò che rivela: una fonte di accuratezza e significativo errore al tempo stesso. Per capire ciò, Frank Herbert suggerisce che la chiave di lettura per comprendere il protagonista e le sue azioni è il principio di indeterminazione di Heisenberg: il dispendio di energia che rivela a Paul ciò che vede, cambia inevitabilmente ciò che sarà. Paul percepisce il tempo come una visione composta da un’infinita rete di possibilità, ramificate a tal punto da rendere il fattore quantistico parte della struttura stessa del romanzo; il punto critico è insito in come Paul cerchi costantemente di rompere la sua profetica visione e, alla fine, altro non possa fare che arrendersi alla sua predestinazione.
Quantificare la probabilità porta a inevitabili errori, a causa della complessa realtà di Arrakis; meglio parlare, dunque, di possibilità, ovvero la scelta che ha Paul di diventare ciò che il deserto gli impone di essere. Da ciò, il paradosso del determinismo, dovuto all’incertezza, che rende la narrazione oltre modo intrigante. Dune trasmette una seria morale sulle conseguenze previste e impreviste a seguito delle scelte compiute dai personaggi.”

Un’analisi mirabile, dalla quale pero’ vorrei distaccarmi, in quanto isola Herbert dalla lunga durata culturale del senso del tragico espresso, in particolare, da Shakespeare: non è indispensabile ricorrere in Herbert, per spiegare la sua particolare visione tragica, insieme classica e moderna (quindi originale), all’indeterminismo influenzato da Heisenberg, dove “a uno medesimo stato presente completamente definito possono corrispondere molti stati futuri possibili, uno solo dei quali si realizzerà” (Mauro Dorato, “Determinismo, libertà e la biblioteca di Babele” in “Prometeo – Rivista trimestrale di scienze e storia”, 2009).

Herbert, da vero artista, mostra i suoi personaggi mentre parlano e agiscono, senza preoccuparsi di mettere loro in bocca o far loro impersonificare una sua tesi o una sua morale, liberi di agire nel palcoscenico della sua Storia futura ma spinti da forze che non comprendono o, al massimo, intuiscono, come già furono i personaggi creati dal Bardo. In Herbert, come anche in Shakespeare, non troviamo una risposta soddisfacente, se non sul piano estetico, al dilemma che l’umanità affronta da secoli tra carattere e destino, tra libero e servo arbitrio.

Illuminante, a questo proposito, è il principio della doppia motivazione, per cui l’azione dell’uomo può dirsi libera ed insieme eterodiretta, come proposto dallo studioso tedesco delle religioni Rudolph Otto nel 1917. Vale per gli eroi shakespeariani come per gli eroi herbertiani.

Paul Atreides, nei primi tre romanzi del ciclo di Dune, vive una crescita, ambigua e complessa – ma profondamente umana – da giovane erede di una casa feudale a orfano fuggiasco in disgrazia; si trasforma da eroe ribelle di un popolo in rivolta in un leader carismatico di una sanguinosa crociata da lui stesso prevista, nelle sue visioni drogate, ma condotta con il segreto scopo di evitare la totale distruzione dell’umanità; come un nuovo Edipo, accecato dai suoi avversari e guidato solo dalle sue visioni che si stanno spegnendo, si esilia nel deserto, tuonando profeticamente contro l’aberrante dinastia teocratica da lui stesso concepita, come un futuristico Re Lear, e condanna il figlio, sua ultima guida nella vendetta finale, ad un destino mostruoso, che lui stesso non ha saputo accettare, per salvare l’umanità.

Sono senza dubbio temi tragici che Herbert, riprendendo la lezione shakespeariana, sviscera da par suo e che raggiungono l’apice ne “L’Imperatore-Dio di Dune”, vero capolavoro dell’autore e trampolino verso quello che, in altra occasione, ho già definito il finale (non) aperto del ciclo di Dune.

A livello linguistico e formale ci sono molti elementi che accomunano e che avvicinano “Dune” a quella polifonia che è intrinseca a Shakespeare e all’immaginazione tragica. Ci aiuta in questo la notevole tesi di laurea su “Dune” svolta da Silvia Bernardini (Socia di Yavin 4) nell’anno accademico 1993-1994, con una ricerca condotta su diversi piani e che, nello specifico, si concentra su una scena che molti appassionati del romanzo considerano un vero capolavoro nel capolavoro, ossia la scena del banchetto, contenuta nel sedicesimo capitolo del romanzo. Silvia Bernardini ci ricorda che…

“Le caratteristiche del linguaggio in Dune non possono essere viste separatamente dal contesto in cui Herbert colloca il suo romanzo. Da un punto di vista formale, troviamo tre stili narrativi: il discorso diretto, il discorso indiretto, ed una forma che potremmo definire di discorso quasi-diretto. Questi tre stili si integrano perfettamente nell’insieme, in quanto Herbert si pone come narratore omnisciente non solo nei confronti della storia ma anche nei confronti dei singoli personaggi. È come se ogni singolo stile narrativo presentasse, nel suo piccolo, una sorta di risveglio della consapevolezza.
Un primo stile narrativo, che potremmo definire descrittivo, è quello che più resta obiettivo nei confronti dell’evolversi della trama. È il discorso indiretto, cioè la descrizione costante di fatti ed avvenimenti, che assume toni rigorosi nel momento in cui Herbert utilizza elementi ecologici e paesaggi per spiegare elaborate metafore. Un altro stile presente è quello del monologo interiore, chiaramente riportato nel testo in caratteri italici, e quindi graficamente riconoscibile rispetto al resto. Generalmente però, quando un autore presenta questo tipo di narrazione, sposa la filosofia del suo personaggio, e ne riporta i pensieri quasi in esclusiva rispetto agli altri. Non è invece il caso di Herbert, il quale non riporta i pensieri di un unico personaggio, ma riporta tutti quei pensieri che possono via via aiutare il lettore a comprendere il corretto evolversi dei fatti.
Questo strumento stilistico serve a dimostrare come il personaggio sia arrivato ad uno stadio cosciente tanto da essere in grado di verbalizzare l’accaduto. Non a caso, da un punto di vista prettamente grammaticale, i passaggi scritti in italico sono in prima persona singolare e al tempo presente.
Tra questi due modi stilistici ne emerge un terzo, una forma narrativa che tenta di presentare la consapevolezza dei personaggi attraverso fatti verbalmente inespressi. Si attua cioè una forma di correlazione tra i pensieri di un personaggio (in prima persona singolare e al tempo presente), l’espressione di tali pensieri, una conseguente reazione non verbale di altri personaggi, ed eventualmente una verbalizzazione da parte di uno dei reagenti, secondo un’ipotetica catena pensiero-azione-pensiero-reazione. Alcuni linguisti hanno chiamato questo stratagemma erlebte Rede, ossia discorso vissuto, sperimentato, o meglio, secondo un’analogia che dovrebbe chiarire le idee, il linguaggio che userebbe uno spettatore di teatro per spiegare a terzi i contenuti di un monologo.
Naturalmente questi tre interagiscono tra di loro quasi a creare forme espressive nuove dove intervengono non solo aspetti verbali della comunicazione ma anche, e in alcuni casi soprattutto, aspetti non verbali. Questa interrelazione è bene evidenziata in una scena particolare del romanzo. Subito dopo l’arrivo degli Atreides su Arrakis, Jessica decide di organizzare una cena di benvenuto alla quale invitare diversi personaggi, per fare in modo che gli ufficiali Atreides familiarizzino con la realtà locale ed eventualmente stringano qualche relazione di comodo. Nel dettaglio, la scena è esemplificativa di un aspetto che potrebbe essere definito semantica ecologica, specialmente per come i significati vanno a definirsi nei confronti del contesto linguistico in cui vengono prodotti e degli atteggiamenti non verbali ad essi correlati.
Oltretutto, si crea una sorta di dualità, visto che Herbert come narratore omnisciente non solo riesce a descriverci la scena così come essa appare, ma riesce a descriverla così come essa viene effettivamente vissuta attraverso Jessica. Inoltre, si vede anche bene come i discorsi dei personaggi, malgrado abbiano un’apparenza generica, siano in costante riferimento con due dei maggiori temi conduttori di Dune: ecologia e religione.
Durante un primo approccio con gli ospiti, Jessica esprime in modo del tutto naturale e quasi ingenuo l’intenzione del suo Duca di vedere Arrakis trasformato in un pianeta verdeggiante e ricco di acque. Di per sé, l’affermazione verbale di Jessica è chiara e semplice:

“Il Mio Signore e io abbiamo altri progetti per la nostra serra – intervenne Jessica. Sorrise a Leto: – Intendiamo conservarla, certo, ma soltanto a nome del popolo di Arrakis. Il nostro sogno è che un giorno il clima possa cambiare al punto che sia possibile far crescere dovunque, all’aperto, queste piante.”

Il problema non è la frase di per sé, ma le implicazioni che essa sottende nel momento in cui viene considerata da chi vede in Jessica la madre del messia.

“Leto si accorse allora dell’espressione sul volto di Kynes. L’uomo stava guardando Jessica, e sembrava trasfigurato: come un uomo innamorato… o sorpreso in una trance religiosa.”

Ovviamente, la stessa frase… non aveva fatto lo stesso effetto… a Leto o ad altri ospiti. Quindi si individua un primo punto: una sorta di misticismo religioso, non condiviso da tutti, che va ad identificarsi con la fede nel fatto che l’ecologia di Dune si possa trasformare. C’è chi in questa trasformazione ci crede, e c’è chi non ci crede; idealmente quindi il gruppo si divide in due.

“I pensieri di Kynes erano stati travolti dalle parole della profezia: «e divideranno con voi il vostro sogno più prezioso.» Parlò direttamente a Jessica: – Ci avete forse portato la via più breve?
– Ah, dottor Kynes – disse il convogliatore d’acqua. – Siete venuto, dunque; avete interrotto le scorribande con quella orda di Fremen. Molto gentile da parte vostra!
Kynes scambiò con Bewt uno sguardo indecifrabile, e replicò: – Nel deserto si dice che il possesso di grandi quantità d’acqua porta l’uomo a fatali imprudenze.
– C’è un mucchio di detti strani, nel deserto – ribatté Bewt, ma la sua voce tradì l’incertezza.

Jessica si avvicinò a Leto e fece scivolare la mano sotto il suo braccio, cercando disperatamente di dominarsi. Kynes aveva detto: «La via più breve.» Nell’antica lingua, queste parole potevano esser tradotte con «Kwisatz Haderach». La strana domanda del Planetologo sembrava essere sfuggita all’attenzione degli altri e ora Kynes stava curvandosi verso una delle donne del gruppo, prestando orecchio a qualche pettegolezzo sussurrato.
Kwisatz Haderach, pensò Jessica. Forse la nostra Missionaria Protectiva ha seminato anche qui la leggenda? Questo pensiero riaccese in lei le segrete speranze che nutriva per Paul. Potrebbe essere lo Kwisatz Haderach. Sì, potrebbe esserlo.”

Ovviamente il soggetto della conversazione, cioè l’ecologia di Dune, sottintende un argomento che si esplicita solo tra Kynes e Jessica, cioè lo Kwisatz Haderach, mascherato da interventi generici di altri ospiti sulla cultura Fremen, che quindi li coinvolge tutti e due. In questo senso abbiamo un esempio del discorso quasi-diretto che più volte ricorre nel testo. Jessica afferma l’intenzione di stravolgere l’ecologia di Dune. Kynes interpreta la frase secondo criteri non condivisi dalla comunità estranea, ossia secondo i dettami della profezia, ma non potendo parlare apertamente di profezia, cerca delle conferme direttamente da Jessica con una domanda esplicita, che però mantiene un’ambiguità di fondo: “Ci avete forse portato la via più breve?”. Da un punto di vista ecologico (che in questo contesto è quello esplicito, condiviso da tutti), la frase viene tradotta in: “Porti i mezzi per realizzare la trasformazione ecologica velocemente?”. Da un punto di vista religioso (che in questo contesto viene condiviso solo da Kynes e Jessica, e sospettato da Leto), la frase viene tradotta in: “Sei la madre dello Kwisatz Haderach?”.
L’intervento di Bewt scioglie la tensione generale, ma non rompe del tutto il feeling che si è venuto a creare tra Kynes e Jessica, tra religione ed ecologia. Bewt è un commerciante d’acqua, non può quindi vedere in positivo la trasformazione ecologica di Dune, andrebbe contro i propri interessi. Non ha inoltre, evidentemente, una conoscenza tale da individuare nelle parole di Kynes un sotteso religioso. Quindi imposta un discorso vagamente culturale su detti e tradizioni Freman, che costituiscono comunque la base culturale per religione ed ecologia.
Comunque, Kynes con la sua affermazione ottiene una reazione emotiva in Jessica, la quale, malgrado il suo addestramento speciale, a fatica si controlla. Una volta ripreso il controllo, pensa alle parole di Kynes, e quindi verbalizza nei suoi pensieri ciò che crede di aver capito dalla domanda di Kynes.

“Il rappresentante della Banca della Gilda stava conversando col convogliatore d’acqua, e la voce di Bewt risuonò per un istante sul brusio della conversazione: – Molte persone hanno cercato di cambiare Arrakis.
Il Duca notò fino a qual punto Kynes fosse sensibile a queste parole, raddrizzandosi di scatto e abbandonando la dama e i suoi frivoli conversari.
Nell’improvviso silenzio che seguì, un soldato della Casa in tenuta da valletto si schiarì la gola, alle spalle di Leto, e annunciò: – La cena è servita, Mio Signore.”

Dunque, c’è chi crede alla trasformazione di Dune, e c’è chi non ci crede. Sulla base di questo riusciamo anche a capire le idee dei personaggi di contorno, anche se questi non vengono mai esplorati nel dettaglio.
Per esempio la figura di Bewt si definisce qui nello specifico, in quanto, essendo Bewt un commerciante d’acqua che ha bisogno dell’appoggio della famiglia regnante, i suoi atteggiamenti saranno dettati da questo tipo di obiettivo: accattivarsi gli Atreides a sfavore della popolazione locale. Il fatto che l’acqua su Arrakis sia di vitale importanza e sia fondamentale per chi ha il potere, è per Bewt un motivo di garanzia sufficiente del fatto che gli Atreides non attueranno mai la trasformazione ecologica con il rischio di perdere potere, e lo fa sentire autorizzato a deridere Kynes nei suoi atteggiamenti Fremen. Ovviamente questo tipo di arrampicatore sociale si identifica in atti e parole, anche se i suoi pensieri non vengono approfonditi. C’è dunque da chiedersi quale sarà il punto di vista condiviso dal lettore.
La scena del banchetto di per sé può essere interpretata diversamente, a seconda del grado di attenzione con cui viene letta, anche se comunque è solo un piccolo esempio. Non fornisce certo tutti quei dettagli necessari ad un lettore per stabilire se stare dalla parte della trasformazione ecologica o no. Però, il riportare i pensieri di Jessica, e con essi le sue speculazioni personali sulle azioni della sorellanza, implica un coinvolgimento da parte del lettore. Non è come leggere un libro, ma, con un grado di attenzione maggiore, è come essere seduti in teatro ed assistere ad una rappresentazione. È questa partecipazione che impone un attimo di riflessione al lettore. Il lettore cioè è chiamato non semplicemente ad abituarsi ad una terminologia differente e nuova (tute distillanti e ornitotteri si sprecano), ma è chiamato soprattutto a far parte di un contesto come osservatore, quasi come personaggio di contorno che partecipa anche se passivamente alla scena.
Ciò che garantisce il coinvolgimento pieno è soprattutto il fatto che Jessica, per capire quello che sta succedendo all’interno della scena, ne deve uscire almeno con i pensieri. Mentre il monologo interiore di Kynes è riferito a qualcosa di specifico del suo ambito culturale, al punto che i pensieri di Kynes si esplicitano in citazioni mnemoniche delle quotazioni della leggenda, Jessica deve vagliare le affermazioni di Kynes traducendole nell’antica lingua, la lingua della leggenda (che per lei non è innata, ma è acquisita), e quindi anche le sue conclusioni vengono trasposte in un altro contesto…
Questo perché in Dune non è il testo che determina il contesto, ma è il contesto (sia esso ecologico, religioso, politico, ecc.) che va a determinare il testo, intendendo per testo tutta quella produzione linguistica e metalinguistica, verbale e non verbale grazie alle quali la narrazione si snoda.
E dunque la struttura linguistica di Dune che si presenta così complessa e articolata, rispecchia e contemporaneamente determina la complessità di una trama che si svolge per piani dentro ai piani, dentro ai piani: “Piani nei piani nei piani, pensò Jessica. Siamo forse parte del piano di qualcun altro?”.
Il linguaggio in Dune, dunque, presenta delle peculiarità, ed è cosa abbastanza ovvia, se pensiamo che per Herbert la scrittura è soprattutto un mezzo per far riflettere i propri lettori. Sotto certi aspetti si potrebbe addirittura dire che Herbert sembra avvicinarsi all’espediente manzoniano tipico del romanzo storico nel momento in cui cerca di dare fondamento e credibilità al suo romanzo, facendo precedere i capitoli da citazioni provenienti da testi a carattere enciclopedico redatti dopo la morte di Muad’Dib… Ma al di là del semplice piano narrativo, in Dune ritroviamo anche una dimensione poetica, che è quella del menestrello di corte che esprime pensieri e preoccupazioni, gioie e angosce accompagnandosi con la musica del suo baliset. Ed ecco quindi che troviamo ritornelli dalla struttura sintattica semplice, e poesie ben più complesse… sebbene si tratti di testi poetici non riconducibili a forme metriche note, siamo comunque di fronte ad un atto di discorso. Il fatto che questi testi siano cantati da un personaggio particolare come il menestrello di corte, fa sì che queste esprimano un punto di vista particolare del romanzo, assimilabile probabilmente all’ideologia di fondo, ma comunque individuabile nel contesto.
Al di là degli scopi estrinsechi ed intrinsechi dell’opera, Dune si presenta come un’opera linguisticamente molto articolata, senza per questo risultare frammentaria, in cui coerenza narrativa e linguistica procedono di pari passo.”

Anche nella tesi di laurea di Silvia Bernardini riemergono i “piani nei piani nei piani” da cui siamo partiti. E tornano in relazione a un’analisi del linguaggio herbertiano che trova notevoli legami con la complessità del linguaggio con cui si esprimono i personaggi delle maggiori tragedie shakespeariane. Non dimentichiamoci, inoltre, che, nel più volte citato “Macbeth”, troviamo una famosa scena del banchetto che ha sicuramente influenzato il maestro di Tacoma.

Ulteriore conferma dell’assunto di questo mio scritto si trova nel recente (2021) saggio “Dune – Tra le sabbie del mito” a firma del grande Filippo Rossi (Presidente di Yavin 4), al quale dedico con profonda ammirazione questo mio scritto. Ho avuto il piacere di conoscere gli sviluppi e leggere in anteprima questo mastodontico saggio, interamente dedicato all’universo duniano e che non ha eguali in Italia e, a mio parere, nel panorama critico internazionale. Nell’opera si condensano più di trentacinque anni di ricerca e passioni: una profonda e immersiva analisi del ciclo di Arrakis, che spazia da Shakespeare fino a Carl Gustav Jung, passando per Philip K. Dick, trascinata in un vortice visionario della musica cosmica dei Pink Floyd e di Klaus Schulze (ma non solo…), rivelatrice di un’enorme passione per il maestro di Tacoma e per la sua profonda cultura. Dune – Tra le sabbie del mito è un’analisi a tutto campo che avvicina il lettore alla grandezza tragica dell’universo concepito da Herbert; e dove possiamo leggere questa analisi delle influenze shakespeariane in Dune:

“Frank Herbert sa inserirsi a testa alta nel flusso artistico che il teatro greco inaugura e che i testi dell’inglese William Shakespeare rielaborano… Negli anni Settanta del Novecento raggiunge il culmine quel periodo di transizione che ha segnato la metà del secolo breve… L’umanità perde in poco tempo la gioia della pace, la serenità del benessere e la fiducia nell’armonia per riflettere su sé stessa, sulla sua inquietudine, sul suo malessere… L’Universo di Dune presenta una similitudine con l’epoca in cui appare. Lo status quo è caratterizzato dalla vaga consapevolezza del degrado ma dall’impossibilità di porvi rimedio. In queste situazioni terrificanti, uomini e donne… sono schiacciati dall’assenza di valori e sostenuti dalla sola ricerca della sopravvivenza. Ogni figura è un universo e tutti questi universi sono in lotta tra loro, senza soluzioni certe per i problemi che vivono. È pura tragedia: i sistemi di regole, i dogmi religiosi, la logica delle conoscenze si fanno da parte, inermi, per lasciare il campo di battaglia alle contraddizioni. Nessuno si conosce sul serio, libertà e responsabilità sono dubbi continui, dubbi sui dubbi. La vita, quando non è ironia da sopportare, è mistero sarcastico del quale l’umanità è vittima. Di più: lo stesso Uomo è mistero, ancora più imperscrutabile vista la doppia natura di corpo e anima, finito e infinito, naturale e sovrannaturale. L’eroe tragico, nella finzione, per l’affascinato pubblico fa da ponte ingiudicabile tra l’immanente, il terreno comprensibile delle lotte quotidiane, e il trascendente, l’ultraterreno di conflitti universali che non potranno mai essere compresi.”

Anche per Frank Herbert può valere, quindi, quanto già scritto da Nemi D’Agostino su Shakespeare: “Il grande artista è come un uomo strabico. Un occhio guarda al futuro, e l’altro agli archetipi in fondo al breve passato umano. Egli è originale in due sensi, quello comune, e quello per cui sa tornare alle origini.”

Massimo Moro – Y4

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